"SAHAR"
ARTSHOPPING 2018 Salon International d'Art Contemporain
Paris, Carrousel du Louvre 19-20-21 ottobre 2018
SAHAR ( سحر ) è un termine di origine araba, spesso usato ancora oggi come nome proprio femminile, che può essere tradotto come “alba” anche se, in realtà, il suo significato preciso sarebbe quello di “appena prima dell’alba”. In particolare, nella tradizione ebraica, Sahar ( שחר ) “denota il preciso momento di passaggio dalle tenebre alla luce e di entrambe porta il messaggio”.
A differenza dell’accezione italiana in cui il termine “alba” evoca l’idea del chiarore incipiente, la tradizione ebraica racchiude nel termine il concetto di oscurità dato che “non v’è ora più oscura di quella prossima all’alba”*. L’accezione ebraica “pone dunque l’accento sull’attesa della luce, ovvero sul momento che precede la sua manifestazione. Sahar è la promessa della fine della notte che di solito viene annunciata dal canto degli uccelli che, ancora buio, presentono l’arrivo del giorno.”
Ed è certamente l’implicazione simbolica di questo momento di passaggio (notte-giorno) che ha spinto BZanconato a farne il titolo della mostra, oltre che il titolo di un’opera, che viene presentata al Carrousel du Louvre di Parigi in occasione dell’edizione di ottobre di ArtShopping 2018. In questa decisione dell’artista c’è il riflesso delle recenti vicende personali che l’hanno vista al fianco del padre nei suoi ultimi mesi di vita. E “Sahar” è la sintesi perfetta di una riflessione sulla vita che BZanconato ha sviluppato nel percorso a fianco del padre e che ora viene proposta nella mostra al Carrousel du Louvre.
A questo si aggiunge il dualismo implicito nel significato simbolico di Sahar, che è al contempo notte e giorno, momento più buio ed attesa di luce.
Dualismo che pervade, a livelli diversi, le tematiche proposte dalle opere in mostra, che, affrontando il tema della morte (tabù irrisolto anche della nostra società contemporanea), gettano una luce vivida sulla vita. Questo rapporto dinamico tra elementi contrapposti può essere percepito ad un primo sguardo sull’ambiente espositivo che presenta, da una parte, un leggio che regge un libro d’artista (“SPLEEN FLOWERS”) e, al centro, collocata su una base che la alza da terra, una barca sulla quale siede una figura che fuma un sigaro. La barca, simbolo antichissimo, rende immediatamente l’idea del passaggio, dell’andare al di là (nell’antichità molti popoli, a partire dagli antichi egizi, hanno adottato una imbarcazione rituale per i loro riti funebri; nel mondo greco-romano Caronte traghettava le anime dei morti nell’Ade trasportandole da una riva all’altra del fiume Acheronte; nelle popolazioni nordiche era in uso cremare i morti in barche funerarie).
Se, da una parte, la barca è rappresentazione della morte (e la figura con la testa costituita da un teschio sembra darne conferma), il libro aperto sul leggio lo è della vita, con le sue diverse e bellissime pagine. In queste si legge, tra le altre cose, “la vita è una creazione continua”.
In questo gioco di rimandi in cui si articola il percorso espositivo, l’opera a fianco del leggio “AND DID YOU GET WHAT YOU WANTED EVEN SO?” (E alla fine hai conseguito ciò che volevi?), ci presenta una sorta di quadrante di contachilometri che, però, anziché rappresentare il numero di chilometri percorsi ritrae un conto alla rovescia (il numero 5 infatti segue al numero 6 che ormai è fuori visuale). Da rilevare lo stato delle superfici, vintage, con ampie aree invase da uno strato di ruggine, a dare il senso del tempo passato.
È l’istantanea del momento in cui il tempo sta per scadere ed è ora di tirare le somme: per questo la questione posta dal titolo diviene non solo pertinente ma urgente.
E qui emerge a più livelli, il dualismo di cui si accennava più sopra: ad un primo livello, l’approssimarsi della morte getta una luce sulla vita trascorsa. Chi si trova in questa condizione spesso sente l’esigenza di porre ordine nelle proprie memorie, a cercare un senso ai tanti momenti della propria vita, a trovare una sorta di filo logico che unisce le varie tappe della propria esistenza. Ad un altro livello, più generale, se vogliamo, la presenza della morte, come elemento costitutivo e ineludibile della vita, rende unico e prezioso ogni momento vissuto: se ci si ricordasse che, comunque, la morte è dietro l’angolo e ci può cogliere anche nei momenti più inaspettati, forse, anche a partire dalla gioventù, il nostro atteggiamento verso la vita ed i suoi risvolti anche quotidiani sarebbe più consapevole, magari diverso.
Per contro, la nostra mentalità tende a nascondere l’esistenza della morte, al più a segregarla in momenti in cui i riti e le convenzioni ne occultano il vero messaggio: che è vita. A guardar bene, infatti, molti dei riti funebri anziché celebrare il defunto, le sue azioni, la sua memoria, il suo retaggio, tendono a riproporre la nullità umana di fronte alla morte ed ai disegni divini, continuando a diffonderne la paura. Tabù, appunto. Invece, la scomparsa di una persona, al di là del dolore che ogni perdita comporta, diviene una occasione per rammentare che la vita è un dono precario, che la persona stessa, con la sua vita, con le sue opere e le sue azioni, ci ha lasciato un messaggio, un esempio, un’eredità.
Ma la questione che pone l’opera rimanda anche al progetto, se così lo vogliamo vedere, della nostra vita: valutare se abbiamo ottenuto ciò che volevamo implica necessariamente l’aver posto almeno un obiettivo da conseguire verso il quale dirigere le nostre azioni. Ed è questo il nocciolo della questione: la definizione dell’obiettivo di vita, che soddisfi le nostre aspirazioni più profonde portando a compimento le nostre peculiari capacità, i nostri talenti. Come indica la frase nel libro: fare della nostra vita “una creazione continua”.
Purtroppo però non sono l’individuazione e lo sviluppo dei talenti di ciascuno al centro della mentalità e dell’educazione prevalente: al contrario, l’omologazione e la pianificazione dei comportamenti sono i veri e malcelati obiettivi della società contemporanea, nella quale lo stare al passo delle mode, non solo stilistiche o tecnologiche, diventa già un obiettivo di vita. E non fa nulla se, in tutto questo, le aspirazioni individuali profonde vengono ignorate se non stritolate dalla morsa costituita, da una parte, dalla martellante pubblicità e, dall’altra, dalla necessità di apparire nei confronti del gruppo sociale di appartenenza.
E questo circolo vizioso, questa strada senza uscita è il soggetto di "BIAS", una delle opere presentate nella parete centrale della mostra. Dal punto di vista psicologico i bias sono quegli errori di valutazione derivanti da una complessa serie di fattori che possiamo in qualche modo riassumere come il risultato di una assunzione acritica e non logica di inputs e condizionamenti profondi della famiglia, della società, dell’educazione, di certe proprie esperienze personali pregresse, … ma che non sono in linea con la propria indole e che comunque condizionano e dirigono il comportamento in modo incoerente. Il problema è che risulta piuttosto difficile accorgersi e poi liberarsi di questi elementi distorsivi inconsci che nel tempo diventano sempre di più elementi di blocco comportamentale ed impediscono lo sviluppo personale.
Tanto più che la vita contemporanea ci vede sempre di corsa, spinti da una corrente nella quale siamo tutti immersi e della quale occorre assumere la velocità ed assecondare la direzione. "THE SPEED OF LIFE" (La velocità della vita) è l’opera che affronta questo aspetto: la velocità oggi è diventata un valore e questa velocità viene misurata continuamente facendo dei relativi strumenti di misura una estensione indispensabile della persona. Tutto deve essere eseguito e visto velocemente; tutto deve essere affrontato e deciso rapidamente; tutti devono vivere non a 200 all’ora (non basta più) ma a 500 all’ora, come indica la rappresentazione dell’opera. Velocità che poi significa lavoro totalizzante, corsa al denaro ed all’affermazione di sé (affermazione sempre e solo economica), dato che il valore delle persone si misura dall’estensione del loro conto in banca. Ma cosa si coglie a quella velocità? Ognuno di noi vuole veramente percorrere la sua vita a quel ritmo forsennato?
BZanconato presenta con "The Speed of Life" il concetto dell’impiego del tempo (e quindi del percorso di vita) che, alla luce di quanto detto, è contato e quindi prezioso. Il suo utilizzo diventa espressione della progettualità individuale. E come per tutti i progetti, anche per quello umano è richiesta una fase di studio e di analisi preliminare prima di intraprendere la fase di sviluppo vera e propria, allo scopo di valutare le varie possibilità, indirizzare al meglio le scelte, mettere a fuoco i punti di forza e di debolezza. E questo solitamente richiede non solo tempo ma una riflessione, una analisi, appunto, di natura prettamente individuale che porta poi a fare delle scelte consapevoli che tengano conto delle nostre predisposizioni personali e delle nostre aspirazioni più profonde. A questo si aggiunge il fatto che tali scelte avvengono spesso in un momento della vita, la giovinezza, in cui molti non hanno ancora avuto la fortuna di conoscere a fondo le proprie predisposizioni ed aspirazioni profonde e nel contempo sono attratti dai miti collettivi proposti dalla società dei consumi. Quindi, spesso, il rapido vortice nel quale siamo immersi più o meno consapevolmente, trascina velocemente verso direzioni che non sono state nemmeno immaginate, avvolti da un comodo conformismo che riduce le questioni da porsi e le decisioni da prendere.
Ma è questa la vita che davvero vogliamo o abbiamo voluto? È questo ciò che abbiamo desiderato veramente?
Non sempre. Nel tempo ci si accorge di aver sposato dei valori nei quali in realtà non si aveva nemmeno riflettuto e di aver vissuto secondo canoni di altri.
Ma nel lungo periodo il carattere, l’indole profonda in qualche modo emerge. Si fa strada a poco a poco, lentamente. Certe volte bastano dei fatti all’apparenza insignificanti per scatenare un cataclisma. Oppure fatti dolorosi portano alla luce la realtà delle cose. Da principio viene scalfita solo la superficie: solo dei piccoli graffi ma che nel tempo costituiscono una lettera. Poi una parola ed infine un urlo: come quello di un’altra opera in esposizione, "GRITA" (grida in spagnolo). Il velo di Maya è rotto e ci si avvede delle barriere che ci circondano e delle catene che in qualche modo ci hanno tenuto legati.
E questo rimanda ancora alla frase del libro che recita: “la vita è una creazione continua”. E la creazione consiste nello sviluppo della unicità di ciascuno, preziosa in quanto non ripetibile. Da questo punto di vista, il segno che ritroviamo nell’opera (Grita), un graffito nel senso proprio del termine, inciso a forza nel muro della prigione urbana in cui molti si sentono di vivere, spersonalizzante e priva di calore umano, appare un gesto di sfida ma, in realtà, rappresenta la riscoperta e l’affermazione di una individualità che ha difficoltà nel riconoscersi nei riti collettivi contemporanei, nella corsa al consumo (ed allo spreco), nella visione puramente economica delle cose, dimentica della componente umana che dà un contorno completamente diverso ad ogni cosa.
E l’urlo, per certi versi, è espressione del rammarico che certuni provano per aver sentito ed ascoltato tardivamente questa loro voce profonda, quando la strada percorsa in una direzione non loro (alla velocità contemporanea) è tanta. Ed è per questo che la luce gettata dal pensiero della morte sulla vita diventa preziosa, ricordandoci che questa è la nostra occasione.
Ecco che quindi si ritorna al discorso di partenza: la morte non più da vedere con quell’alone macabro e da nascondere alla nostra vista, ma al contrario da tenere presente nella vita e nei pensieri di ogni giorno come una bussola per dirigere le nostre azioni, come un setaccio per discriminare ciò che ci appartiene da ciò che invece ci è estraneo.
Inoltre il pensiero della morte introduce l’idea del retaggio che lasceremo dopo di noi, ai nostri figli, al mondo che verrà. E quale ricordo vogliamo lasciare di noi?
Ed anche in questo caso un'altra pagina del libro, vera chiave di lettura di tutta la mostra, ci presenta la visione dell’artista attraverso una citazione di Ezra Pound:
“What thou lovest well remains, Quello che veramente ami rimane,
the rest is dross il resto è scoria
What thou lov’st well Quello che veramente ami
shall not be reft from thee non ti sarà strappato
What thou lov’st well Quello che veramente ami
is thy true heritage” è la tua vera eredità
Per BZanconato ciò che veramente ci rappresenta, il retaggio che ognuno di noi lascia è costituito da ciò che si è amato, da ciò che è stato oggetto della nostra passione. Ed il motivo di questo è riportato in un’altra pagina dello stesso libro:
“ogni qualvolta cerchiamo di essere migliori di quello che siamo, anche tutto quanto ci circonda diventa migliore: è qui che entra la forza dell’amore perché quando amiamo desideriamo essere migliori di quanto siamo”
Il pensiero della morte, quindi, diviene uno stimolo prezioso per sviluppare al meglio le nostre possibilità, per vivere intensamente e consapevolmente ogni istante della nostra vita. Questo infatti appare il suggerimento che BZanconato lancia con l’altra opera in mostra nella parete centrale: “WHOSE WORLD IS IT?” (Di chi è il mondo?), una sorta di maschera variopinta della morte, che mantiene sì delle tinte fosche (il dolore della scomparsa certo rimane, ma anche questa è una componente della vita) ma che a queste ne abbina altre accese e meno inquietanti: la morte è una sorta di amica che ci accompagna per tutta la vita e che ci può aiutare a dare un senso più profondo alla nostra esistenza.
E questo rimanda alla strana figura che siede sulla barca, un teschio con corpo e fattezze umane che sta fumando un sigaro e che, nella simbologia dell’artista, accompagna l’uomo e la sua anima anche nell’ultimo passaggio attraverso l’Acheronte. Ma, come detto, anche a proposito di "Whose the world is it?", non si tratta di una figura inquietante ma al contrario ironica se non amichevole: di fatto quella che ci è sempre stata al nostro fianco, un amico che ci ha spronato e ci sprona a tirar fuori il meglio di noi stessi.
Per riassumere, Sahar rappresenta per BZanconato l’occasione per affrontare il delicato tema del senso della vita. E lo fa prendendo spunto dalle sue vicende personali (la scomparsa del padre) per condividere le sue esperienze e le sue riflessioni, per far osservare che, in fondo, la morte ci ricorda che la vita è un dono che è un peccato sprecare.
Che la vita è anche la nostra occasione per lasciare una traccia duratura del nostro passaggio e che questa traccia è costituita dalla passione e dall’amore di cui rivestiamo le cose e le persone che ci circondano. E in modo che alla fine per citare la poesia “Late Fragment” di Raymond Carver che si ritrova in un’altra delle pagine del libro Spleen Flowers in mostra, si possa rispondere che sì, si è ottenuto ciò che si voleva dalla vita, nonostante tutto:
"And did you get what “E hai ottenuto quello che
you wanted from your life even so? volevi da questa vita, nonostante tutto?
I did. Sì.
And what did you want? E cos’è che volevi?
To call myself beloved Potermi dire amato,
To feel myself beloved on the earth.” sentirmi amato sulla terra.”
*(vedi G.Busi “Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci” Einaudi)