DER SUCHENDE
Salon International d'Art Contemporain ART3F di Parigi
26-28 gennaio 2018
Dopo la mostra di Mulhouse, una disquisizione sulle incoerenze di atteggiamenti e posizioni comuni riguardanti la violenza sulle donne (e la violenza in genere), sugli slogan che ci bombardano quotidianamente, sugli spazi di libertà che ognuno di noi vede ridursi in una società dell’apparire e non dell’essere, B.Zanconato propone a Parigi una nuova esposizione, un nuovo capitolo della sua stagione narrativa dal titolo « DER SUCHENDE » che ci porta a riflettere su temi completamente diversi anche se complementari ai precedenti.
Lo scenario di riferimento è sempre la società contemporanea, con le sue contraddizioni e i suoi paradigmi. L’artista ricorda che stiamo attraversando una fase di grandi cambiamenti che si stanno manifestando a livelli diversi ma che intersecano ed influenzano la vita di ognuno di noi. Uno di questi è dato dal grande impulso dato allo scambio di informazioni dalla grande rete globale, da internet e dai media che mettono a disposizione gli avvenimenti di rilievo che accadono anche nei luoghi più remoti. E nel contempo offrono ai diseredati del mondo speranze di riscatto impensabili nelle loro zone di origine e che sono alla base dei flussi migratori degli ultimi anni.
“WELTSCHMERZ”, la prima opera della nuova narrazione proposta da B.Zanconato, affronta questi temi. L’artista racconta che l’opera è nata a seguito di uno dei tanti tragici naufragi di barconi carichi di profughi nel Mar Mediterraneo e dal conseguente sentimento di empatia e di pena che ha provato di fronte alla disperazione e alla morte di così tante persone. Le sue parole definiscono le sottili figure metalliche poste al centro dell’opera, che sembrano lanciare urla disperate tra i minacciosi flutti di un tetro mare. Da notare che la scena è inserita all’interno di un contenitore, che non è cornice, ma piuttosto uno schermo oltre il quale sembrano proiettarsi le grida d’aiuto. Su un diverso piano, ad un lato, quasi fuori da essa, un’altra figura umana, tratteggiata da fil di ferro, sembra voler prendere le distanze, allontanarsi da quello scenario sciagurato. Sulla parte bassa, una piccola cascata di fili rossi di fianco al titolo dell’opera che B.Zanconato ha impresso su lamina metallica. “Weltschmerz” è un termine tedesco dal significato sfumato e che, a seconda dei contesti, dà conto di quel sentimento di sfiducia o tristezza di fronte alla crudeltà e ai mali del mondo, di quella specie di sofferenza, caratteristica delle persone più sensibili, legata all’empatia che si può provare di fronte al dolore di altri. E l’empatia è il tema chiave di quest’opera.
L’empatia rappresenta per B.Zanconato il simbolo della sensibilità umana che si confronta con un altro simbolo sul quale si gioca la dialettica dell’interpretazione: quello del contenitore/schermo (che potrebbe essere lo schermo televisivo o quello del computer) che trasforma le tragedie umane in immagini di intrattenimento. Lo schermo, infatti, è una superficie ambigua, sulla quale si proiettano fatti, informazioni e notizie di tutti i tipi ma anche programmi di intrattenimento in cui la distanza dalla realtà viene appositamente amplificata. Sullo schermo tutto si miscela e appare lontano. E tutto quanto diventa realtà virtuale, finzione e spettacolo: anche le tragedie riportate dai notiziari. Tutto diviene indistinto: realtà o finzione? vero o artefatto? Un caos indistinto nel quale si confrontano e si confondono il dolore di tanta umanità e la scarsa attenzione empatica di chi si trova di fronte allo schermo in cerca di svago e di leggerezza (spesso dopo una delle tante difficili giornate di lavoro).
Sì, perché, se da una parte i migranti stanno sfuggendo da situazioni tragiche, d’altra parte anche il comune cittadino europeo si trova ad affrontare problemi e difficoltà che non gli si erano mai presentati. D’altronde questi sono tempi difficili o meglio di rapido cambiamento. Tutto sta cambiando perché i modelli consolidati non sono più in grado di rispondere alle nuove esigenze. Il mondo delle comunicazioni in tempo reale, degli spostamenti facili, dei rapidi confronti che ognuno di noi può condurre sfruttando i mezzi tecnologici a disposizione, stanno rendendo obsoleti i concetti stessi di nazione, di confine.
Il mondo del lavoro è in continuo cambiamento a causa della mondializzazione dell’economia e degli scambi economici, all’interno dei quali le aziende spostano lavorazioni, stabilimenti e personale sulla base di semplici e inesorabili logiche di profitto. Le grandi multinazionali, ben strutturate per sfruttare al meglio le legislazioni nazionali e sovranazionali, hanno ribaltato i paradigmi di diritto e di stabilità del lavoro, mettendo sul piatto della bilancia della contrattazione con i governi centrali la questione, se non la minaccia, della possibile chiusura di grandi stabilimenti (da riaprire in Paesi in cui costo del lavoro e fiscalità sono più favorevoli). Di conseguenza anche i modelli sociali, in generale basati su una certa uniformità di visione e condizioni, anche economiche, dei componenti, non sono più in grado di tener conto della crescente variabilità dello scenario di riferimento e delle condizioni della popolazione, oltre che della sua crescente multietnicità (che, detta diversamente, altro non è che cosmopolitismo). E la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni ha accelerato questi processi iniziati negli anni ‘80 e ‘90.
Ad un livello ancora diverso, anche il tradizionale concetto di famiglia è severamente messo alla prova: ritmi di vita che non lasciano molto spazio al tempo condiviso nel nucleo familiare si sommano al tramonto della tradizionale ripartizione degli ruoli di coppia, dato che lo sviluppo tecnologico ha reso la maggior parte delle attività alla portata muscolare di tutti. Inoltre, il mantenimento dell’alto tenore di vita (e di consumo), caratteristico dell’esistenza contemporanea, richiede l’apporto economico dei vari componenti del nucleo familiare. In periodi di profonda crisi economica come quelli che stiamo ancora affrontando, questo determina un certo affanno per mantenere le posizioni (anche sociali) conquistate in passato e la paura di non esser più in grado di mantenere lo stesso stile di vita e di perdere di ciò che si ha. E questa paura crea dei fantasmi…
Una situazione che potrebbe apparire caotica, senza punti di riferimento e che, in effetti, così appare a molti. Anche perché mentalità e modi di fare, regole e leggi stabilite in tempi (e mondi) diversi e lontani, coesistono e finiscono per rallentare se non ostacolare il cambiamento (inesorabile) che è in atto. Nella stagione della rimozione delle frontiere ecco che si vede il ritorno di tendenze nazionaliste (o regionaliste, Brexit, Catalonia, …) o, ancora peggio, nazi-fasciste. Nell’era del trasporto e della circolazione globale, ecco che il traffico aereo proveniente da alcuni Paesi viene impedito.
Un “CHAOS” appunto, come l’opera omonima che l’artista ha scelto di disporre sulla parete centrale della mostra e che simboleggia perfettamente questa situazione di convivenza tra elementi esauriti ed altri nei quali si scorge la contemporaneità; tra parti in cui risulta evidente l’effetto del tempo e quelle in cui la patine risulta ancora indubbiamente attuale. Di fondo, il consumismo che, col rapido ricambio dei beni di consumo, produce scarti (anche di natura umana), immondizie da smaltire, materiali dismessi che poi sono quelli di cui l’artista ha fatto uso magistrale per la sua opera. Si tratta indubbiamente di una convivenza difficile da far combaciare. In effetti, in alcune zone, gli elementi costitutivi hanno dei bordi che non collimano perfettamente ma questo fa parte delle cose: vecchio e nuovo non combaciano mai perfettamente…. il CHAOS è anche questo.
“CHAOS” è la ripresa del termine greco utilizzato dall’artista come la rappresentazione della contemporaneità, della perdita di punti di riferimento: è come muoversi nell’oscurità, alla cieca.
Ma che cos’è la vita? Non è forse muoversi alla cieca senza veramente sapere qual è il corso che stiamo prendendo? non è forse anche ingiustizia, dolore, male, difficoltà e incertezza… senza un perché?
Questa domanda introduce una terza opera in mostra: “HIER IST KEIN WARUM”. La frase tedesca, che letteralmente significa “qui non c’è un perché”, è una citazione dal libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi in cui viene raccontata la sua tragica esperienza di ebreo deportato ad Auschwitz. In particolare, all’arrivo nel lager, sconvolto per il trattamento riservato ai prigionieri, P. Levi domanda insistentemente a tutti perché (warum) fino a quando un suo compagno gli risponde: “Hier ist kein warum” (qui non c’è alcun perché).
B.Zanconato racconta che l’opera nasce da un fatto di cronaca riguardante il campo di concentramento di Auschwitz: nei primi mesi del 2016 sono stati ritrovati, nascosti in un doppio fondo di una tazza smaltata, un anello ed una collana appartenuti ad una delle vittime del lager. “Mi è sembrato che l’amore parlasse ancora attraverso quell’anello, anche da un luogo dove dignità e amore erano diventati per milioni di persone concetti senza senso. Un segno di speranza.
Ho pensato a quante volte quella persona – per me una donna – si era fatta forza stringendo tra le mani quella tazza il cui tesoro celato voleva dire “Io sopravvivrò” ”.
E con quest’opera B.Zanconato rivela, con il suo linguaggio simbolico, un altro paradigma della sua visione: è l’amore, il sentimento, la prospettiva umana ciò che da un senso all’esistenza, che ci fornisce quell’energia capace di farci affrontare le sfide più dure (e cosa può esserci di più duro del lager di Auschwitz?). E tutto questo attraverso l’esempio dell’anonima eroina di Auschwitz, che ha saputo conservare, sprezzante del pericolo, il simulacro della propria umanità sottoforma di gioielli che la univano ad un suo caro. Certo, questo non le ha salvato la vita ma certamente ha impedito il suo annichilimento come essere umano, cioè ha impedito che i suoi sentimenti e, conseguentemente, la sua essenza umana, venissero annullati.
E questo è ciò che B.Zanconato vuol ribadire anche oggi: i tempi sono cambiati, non ci sono più i campi di sterminio (almeno non nelle nostre società occidentali). Tuttavia, un po’ come nei lager nazisti, non siamo che numeri immersi in un meccanismo in cui a fare da riferimento sono solo i bilanci economici, i dati statistici, i trends… e dove le persone, i loro sentimenti, le loro diversità, le loro sofferenze non sono fattori che entrano in gioco. In questo stato di cose, le mastodontiche burocrazie europee (forse non lontane parenti della macchina burocratica nazista, che attraverso la parcellizzazione dei compiti ed i tecnicismi ha saputo far dimenticare ai suoi addetti gli orrori che si nascondevano dietro le loro operazioni quotidiane) certamente non mettono il singolo e le sue esigenze al centro dell’attenzione…. anche e soprattutto in questi tempi complessi da interpretare. D’altronde, è sempre più semplice, più comodo spegnere il proprio cervello e la propria coscienza e seguire ed applicare procedure piovute dall’alto…
D’altro canto è difficile uscire da questa impasse. Non è consigliabile infatti andare contro le regole sulla quali si fonda la burocratica società contemporanea che ha affinato sempre più gli strumenti di repressione. Per contro risulta incomprensibile il senso di questa ossessiva presenza, se non ingerenza, dell’apparato burocratico, con il suo potere di vita e di morte su tante imprese ed iniziative, sulle vite delle persone, spesso bloccate nei loro tentativi di intraprendere. “HIER IST KEIN WARUM”.
Immersi in questo mondo in cui i retaggi non solo ideologici del passato continuano a governare il presente, e nel quale il nuovo scenario, molto diverso da quello della generazione precedente, richiede dei grandi ripensamenti e cambiamenti di carattere politico, economico e sociale, non resta che prendere atto di questo momento di stallo. Potrebbe sembrare uno scontro generazionale e forse è così, ma soprattutto i giovani (in particolare in Italia, ma forse non è diverso in altre parti d’Europa) si trovano nella scomoda posizione di dover pagare il prezzo di scelte e decisioni scellerate prese dalle generazioni precedenti.
Hier ist Kein warum, o forse sì, ma non si può far granché sino a quando i tempi (solo quelli?) saranno maturi. Questa difficoltà di cambiare le cose, unita all’evidenza che il mantenere lo stato attuale non può che peggiorare la situazione genera in molti sconforto e delusione. Ma è anche l’occasione per fare una riflessione profonda. È questa l’indicazione che B.Zanconato ci offre con “DARKNESS”. La stessa artista cita a proposito una sua poesia che racchiude la sensazione espressa nell’opera:
“… avvolto in un umido e freddo buio
Solo il rumore di pioggia metallica
che, incessante, cade nel mio cuore
Ognuno deve riordinare il caos che ha dentro sé.”
“Ognuno deve riordinare il caos che ha dentro di sé”: e questa frase lapidaria, celata nell’opera stessa, è il punto della questione. Questa operazione di riordino, di riorganizzazione diviene necessaria nei momenti più difficili, nei quali si sente il bisogno di liberarsi dei pesi inutili. Si tratta di concentrarsi sulle questioni che sembrano più importanti e di rivedere la scala di valori: si tratta di riconoscere la persona che siamo veramente.
È vero: questo richiede forza, una forza che probabilmente non pensiamo di avere ma che, nel profondo, abbiamo. Come quella che ha saputo trovare la persona che ha nascosto i gioielli nel doppio fondo della sua tazza da caffè a Auschwitz o come quella che Nelson Mandela, nei suoi duri e lunghi anni di prigionia nelle carceri sudafricane per la sua opposizione all’apartheid, ha saputo trovare leggendo una poesia di W. E. Henley e che ha fornito lo spunto per un’altra opera in mostra: “OUT OF THE NIGHT” (“dal profondo della notte”).
Ed è proprio questo incoraggiamento che B.Zanconato intende lanciare con “OUT OF THE NIGHT”: non esiste prova, non esiste situazione che possa annientare questa forza, che possa spegnere la nostra anima.
Le situazioni più difficili, le prove più severe, le ferite più profonde hanno la capacità di lasciare dei segni su di noi ma anche quella di risvegliare le nostre risorse più profonde. Risorse spesso sopite in un letargo dettato dalla noia della vita contemporanea, in molti casi vissuta di riflesso, all’inseguimento di desideri collettivi (e quindi non nostri) e che poi non ci appagano veramente quando raggiunti. Anzi, per certi versi, le difficoltà, i momenti difficili sono l’occasione per riscoprire queste nostre risorse nascoste, e, in fin dei conti, per scoprire che, come recita la poesia di W.E Henley, “Non importa … quanto piena di castighi (sia) la vita. Io sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima”.
E “DIVENIRE”, una successiva opera che l’artista ha collocato nel suo percorso espositivo, è la rappresentazione del momento in cui si ha la percezione di questa forza sconosciuta. È uno squarcio di luce nella notte più profonda, una prospettiva che si apre a seguito di uno sguardo nel buio, una nuova pelle che appare sotto a quella che si sta screpolando. È il momento topico a seguito del quale inizia quel processo di cambiamento (divenire appunto) col quale inizia a manifestarsi la nostra vera personalità, cioè la nostra indomabile anima (è evidente qui il collegamento con alcuni dei temi affrontati dall’artista nella precedente mostra TESHUVA’: la conflittuale relazione tra l’individuo e la società, l’introspezione, la solitudine, il mito di Er…). Si tratta di una vera e propria liberazione: come di una persona che era stata rinchiusa a lungo e che ora anela a rivedere la luce, anzi, a venire alla luce.
E questo introduce la successiva opera in mostra: “RUACH”. Rùach è un termine ebraico (רוח) che letteralmente significa respiro/soffio o vento ma che spesso viene utilizzato anche per indicare lo spirito. Ad accompagnare l’opera una sua poesia che descrive un po’ questo senso di liberazione:
… sotto strati e strati di sedimenti…
… ho scavato e scavato…
… dietro spesse coltri,
tendaggi di un decoro non mio,
ho cercato e cercato…
… in fondo in fondo,
legata da mille catene,
le braccia strette da mille lacci,
alle caviglie mille ceppi,
alla bocca mille bavagli…
…debole, ma ancora viva,
ho provato a slegarla,
a sciogliere i lacci,
ad aprire i ceppi,
a togliere i bavagli….
… ha iniziato a respirare meglio,
ha mosso lentamente gli arti…
… dalla bocca, un urlo liberatorio e di sfida…
L’ho riconosciuta:
sono io.
Con “RUACH”, B.Zanconato gioca coi vari significati del termine. Sul piano puramente visivo la figura, raffigurata oltre una sorta di barriera costituita da vecchi legni, emerge per tirare un lungo respiro, una grande boccata d’aria (rùach). Su quello simbolico, rappresenta lo spirito (rùach) che per lungo tempo è stato rinchiuso nei meandri più reconditi del nostro essere e che, a seguito dell’innesco del processo di riscoperta, viene finalmente liberato, emergendo dalle profondità con un respiro (a sua volta rùach).
E questo è l’elemento fondamentale nella visione filosofica dell’artista: il nostro spirito (o anima) è, per dirla con Henley, indomabile ma richiede che lo si liberi. Occorre scoprire e recuperare la nostra essenza profonda e su di essa edificare la nostra visione della vita che non coincide necessariamente con la visione del mondo che ci viene proposta dalla società.
Anzi, il mondo contemporaneo come detto è “chaos”, una specie di supermercato globale, in cui tutto coesiste e segue le logiche della domanda e dell’offerta. Tutto è in vendita; tutto ha un valore sempre e solo monetario. Peccato che poi ci si accorga che questa visione finanziaria della vita, a breve termine, è precaria e incapace di produrre le risposte che vorremmo.
D’altro canto, però, la condizione umana stessa è caratterizzata dalla precarietà. Una cattiva visione della scienza ci ha portato a pensare di poter dominare gli eventi e la natura, ma ovviamente non è così: le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto ne sono un esempio. In tutti i casi si tratta di illusioni: “sia che l’uomo spalanchi gli occhi o che finga di non vedere …. comunque non vede nulla e procede a tentoni sull’oscura strada della vita.”
E questo è il tema di “EQUILIBRIO”. B.Zanconato spiega che l’opera è una rappresentazione della condizione umana, cioè di “un sottile equilibrio tra meraviglia ed abisso: possiamo provare forti gioie ma un attimo dopo, senza preavviso, cadere nel buio più profondo. Allo stesso modo, proprio quando siamo sull’orlo di un precipizio, qualcosa o qualcuno può tenderci una mano e cambiarci la prospettiva.
Nel momento in cui una persona ha preso coscienza di questa situazione, per sopravvivere lungo il cammino della conoscenza, non può che assumere lo stato d’animo del guerriero che – come dice don Juan, lo sciamano maestro di Carlos Castaneda - consiste nel mantenere in equilibrio il terrore di essere uomo con il miracolo di essere uomo”. Ed è proprio questa frase, che si ritrova, in inglese, alla base dell’opera: “the terror of being a man with the wonder of being a man” (il terrore di essere un uomo con la meraviglia di essere un uomo).
Se da una parte l’esistenza vera non può non tener conto della morte, dell’abisso, del nulla, dall’altra essa rappresenta anche la nostra opportunità, unica e
irripetibile, da giocarsi con un nostro, personale, vero senso di vita e per lasciare un segno del nostro passaggio.
E questo ci porta a una successiva opera in esposizione: “DENKEN OHNE GELANDER”. “Denken ohne gelander”, pensare senza balaustre, in piena libertà, è uno dei messaggi che ci ha lasciato Hannah Arendt. Il pensiero è un dialogo con noi stessi e rappresenta la nostra reazione di fronte alle cose, alle situazioni, al mondo.
E’ anche il modo per crearsi una nostra visione che poi è alla base dell’agire personale e che si oppone al conformismo, alla massificazione ed alla passività del pensiero stesso, dei sentimenti e dei comportamenti che spesso l’omologazione determina. Pensare (Denken) è un modo per affermare la propria individualità, è l’affermazione del soggettivo rispetto a ciò che, sempre più spesso, viene spacciato per oggettivo (se non scientifico). E’ andare controvento, anche perché non sempre il pensiero trova le risposte alle domande che pone.
Se quindi la condizione dell’uomo è quella di una intrinseca precarietà che, peraltro, diviene una opportunità da essere giocata al meglio nel momento in cui questa situazione viene metabolizzata, il pensiero personale (denken) diventa l’elemento fondamentale per sfruttarla. Pensare senza balaustre (denken ohne gelander), in modo creativo, in piena libertà, diventa la chiave per dare un senso ad un’esistenza che, altrimenti, sarebbe non nostra.
Questo non significa risolvere i mali del mondo: ma, a partire dalla considerazione del chaos, dell’ineluttabilità del destino finale che ci attende, significa scoprire e mettere a frutto le capacità ed i talenti di cui siamo stati dotati (e dare un senso alla nostra presenza).
Ed è questa fondamentale analisi personale, che ognuno può condurre, la chiave per liberarci dalle catene della contemporaneità, che sotto mentite spoglie, spinge per il conformismo, per l’uniformità (e di conseguenza l’assenza) di pensiero.
Con la sua ultima opera, “DER SUCHENDE” , che dà anche il titolo d’insieme della mostra, B.Zanconato trasmette un invito: quello della ricerca. Come quella di Siddharta, il protagonista dell’omonimo romanzo di H. Hesse, a cui quest’opera (un’altra devanture) è ispirata. “Der Suchende”, in tedesco letteralmente “colui che cerca”, rappresenta per l’artista lo spirito dell’esistenza umana: la ricerca, appunto. Ricerca che può essere condotta a livelli diversi. Ad esempio, quella della nostra vera essenza, la scoperta e lo sviluppo dei nostri talenti e, per questo, la definizione di un nostro personale pensiero. Nello stesso tempo, la ricerca è apertura, arricchimento, scoperta di idee e cose nuove.
L’artista stessa, citando alcuni passi del libro di H. Hesse, riporta su una parte della sua devanture: “Nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso la dottrina! A nessuno potrai mai, con parole, comunicare ciò che avvenne in te nell’ora della tua illuminazione..
La dottrina non contiene il segreto … Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina… ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta…” .
Der Suchende è perciò un esploratore alla ricerca di se stesso e del mondo, come un guerriero, sa che deve muoversi, al contempo, con cautela e decisione nella pericolosa giungla dell’esistenza, conscio che ogni istante ed ogni angolo può nascondere la sua fine. Ma è proprio questo che la rende magica, unica e irripetibile: e come tale da affrontare.