GRITA!
Omaggio a Max Ernst
Roberto Tagliaferri
“Grita”, ovvero “urlo”, “grido”, non come quello di Munch, che è strozzato in bocca e sembra non riuscire a liberare tutta l’angoscia esistenziale della “gettatezza” in un mondo ostile votato alla morte e al “si” impersonale del “si fa”, del “si dice”, senza sbocchi, senza porti sicuri, in balia del peso di una promessa inevasa e finita male.
“Grita” di Zanconato è piuttosto una protesta, ancora carica di speranza perché nella prepotente volontà di smarcarsi da questo tempo invoca qualcosa di nuovo. L’artista si esprime così sulla sua mostra: “Grita è un grido primordiale, selvaggio, che proviene dal profondo di noi stessi, un grido come reazione a tutto ciò che oggi giorno non va, una reazione di riscatto verso tutte quelle persone che in virtù dei loro soldi o della posizione che rivestono si sentono autorizzate a prevaricare sugli altri pretendendo che si faccia secondo la loro volontà e che se messe di fronte ai fatti non sanno altro che nascondersi dietro a frasi quali ”lei non sa chi sono io” o “si informi circa il suo interlocutore”.
Il suo dissenso non è affidato alla politica, con i suoi riti inconcludenti, è invece consegnato all’arte nella sua veste trasformatrice di comunicazione pragmatica.
La Zanconato non è nuova a Vigoleno; ha già esposto i suoi lavori in due occasioni insieme ad opere di bambini, che hanno partecipato ai suoi laboratori a metà tra il creativo e il terapeutico, sempre con la gioia di far uscire dal nulla, cioè da oggetti di risulta e di scarto, nuova vita, nuovi impossibili personaggi, incredibile vivacità nell’impasto dei colori e delle forme.
Quest’anno l’artista corre quasi del tutto da sola, anche se non mancano le testimonianze dei suoi allievi, perché propone una personale, dove diventa più evidente il suo personalissimo stile di artista, che sa far rivivere le cose con poco o nulla. La sua arte povera, una sorta di “Trash Art”, che si serve di qualsiasi cosa per rimodularla, non è un minimalismo kitsch, trasuda invece una formidabile sensibilità, che comunica stati emotivi primordiali in un percorso disegnato con cura e con sapienza nello spazio felice dell’Oratorio di Vigoleno.
È utile sostare brevemente sullo stile dell’artista, che fa tesoro della lezione di Marcel Duchamp, quando rovesciò l’orinatoio scrivendovi sopra “R. Mutt” e inaugurò l’arte contemporanea tra clamori scandalizzati e reazioni violente che lo allontanarono dalla rassegna del 1917 organizzata dalla Società degli artisti indipendenti di New York. La novità del “readymade”, del riutilizzo delle cose quotidiane in arte pose radicalmente il problema di che cosa fosse un’opera d’arte dal momento che qualsiasi oggetto poteva entrare in un museo. Certamente Duchamp fece piazza pulita della saccenteria dei critici d’arte, ma inaugurò anche una rivoluzione linguistica perché fece capire che il significato di un oggetto dipende soprattutto dal contesto.
In questa tradizione artistica contemporanea la Zanconato colloca la sua poetica, che non
solo riposiziona nello spazio oggetti d’uso ormai sfiniti, ma li rigenera sino a farli diventare altro con una tensione formale ed estetica, che fa apparire “artistico” quel che abbiamo scartato come dequalificato e inutile.
La maestria dell’artista sta in questa nuova tensione che riesce a trasferire alle cose in un’operazione simbolica magistrale perché appare evidente il processo di simbolizzazione del pensiero, talvolta difficile da spiegare e da capire. Il simbolo è un oggetto, che sul suo significato primario, per esempio “sedia”, porta un significato secondo più complesso, come ad esempio “posizione di comodo”. Così il colle de “L’Infinito” di Leopardi non è solo un’entità geografica, ma la barriera che scatena l’esperienza della immensità. Gli oggetti della Zanconato perdono il loro significato primario d’uso normale e acquistano un significato simbolico di altro genere, cioè del viaggio, della scoperta, della speranza, della protesta, ecc.
L’effetto di defamiliarizzazione è ulteriormente corroborato dalle scritte, che non designano qualcosa di preciso, ma spesso sono lettere accostate a caso per una “Babele semiologia” aperta a mondi possibili più ampi. Anche allorquando vi è una citazione di un personaggio importante, come nell’opera che campeggia nello spazio della mostra, le parole sono sempre un po’ occultate per invitare lo spettatore alla ricerca e a soffermarsi.
Mi sono dilungato un po’ sul meccanismo simbolico dell’arte, più che sui temi espliciti della mostra e sulle intenzioni dichiarate perché l’arte ha il potere di dire più di quello che vuole immettere l’artista. Sul significato primario di una sedia rotta si innesta una quantità enorme di significati non più in possesso del solo artista, ma dei visitatori che guardano l’opera.
La collocazione dell’artista nel panorama contemporaneo non esaurisce l’intenzione artistica della Zanconato perché ha sempre declinato la sua verve creativa con la sensibilità pedagogica. La presenza nella mostra di opere dei suoi allievi è un’esigenza della sua creatività, che non si limita alla fruizione degli spettatori, ma si carica del compito educativo nei confronti delle giovani generazioni.
Sembra di ritornare alle botteghe degli artisti scolari. Così Cimabue e Giotto, così Verrocchio e Michelangelo, così Michelangelo e Vasari che eseguivano le opere della committenza impiegando i loro scolari. Senza negare la creatività personale degli adolescenti coinvolti, si sente nelle giovani proposte l’ispirazione del maestro. La Zanconato si illumina nel mostrare i risultati della sua scuola, che non si limita ad un modo di intendere l’arte, ma si allarga al benessere della persona, quasi che l’arte sia un processo terapeutico di educazione e talvolta di guarigione della coscienza. È soprattutto per questa qualità genuinamente artistica di trasfigurazione
terapeutica della realtà che si è voluto che la mostra fosse collegata all’iniziativa annuale “Omaggio a Max Ernst” dell’Associazione culturale “Vigoleno Borgo delle arti”. La rassegna annuale vuole onorare il passaggio a Vigoleno del grande pittore tedesco naturalizzato americano, che amò questo Borgo e qui ideò la grande tela “La foresta imbalsamata” (1933), oggi alla Menil Collection di Houston, e creò molti frottages in mostra al Musée d’Orsay di Parigi qualche anno fa. Dopo il passaggio di nomi illustri legati ad Ernst, come Lucio del Pezzo, Enrico Baj, Maurice Henry, Jean Cocteau, si è voluto dare spazio ad un personaggio semisconosciuto, ma che può esibire la sua poetica senza il timore dei confronti.
L’opera di Zanconato testimonia con forza che non è finita l’epoca del sogno surrealista, inaugurata da Ernst, anzi sembra ormai evidente in questo tempo frammentato e disorientato che c’è ancora posto per il sogno ad occhi aperti, che la realtà di ogni giorno non basta a nessuno e finché c’è un uomo o una donna si dovrà sempre reinventare il mondo.